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venerdì 13 febbraio 2015

Ipotesi


Difficilmente si può essere amici di una persona che non condivide le tue stesse idee politiche o religiose, ma è normale esserlo di una persona di cui non apprezzi il lavoro artistico.
Perché la mia opera non coincide interamente con ciò che sono. Io e l'artista siamo due persone diverse, a volte ci incontriamo, a volte siamo all'opposto. Da artista posso fare quello che voglio senza che ciò influisca sulla mia vita. I miei quadri mi rappresentano quanto un personaggio di un film rappresenta l'attore che lo interpreta. Un pittore non può essere giudicato nella vita per quello che fa da artista, così come un attore non può essere arrestato perché ha interpretato il ruolo di un serial killer.
Perché l'arte non è la vita.
Io mi diverto e sono felice quando lavoro, da quando inizio a montare la tela fino alla vernice finale.
L'importante è solo questo e a chiunque mi presenti una propria opera d'arte vorrei chiedere soltanto "sei felice quando la fai?".

Da artista non apprezzo mai il lavoro di un altro artista. Davanti ad un'opera mi emoziono perché ritrovo i gesti che io stesso faccio, l'emozione si mischia alla voglia di volerlo rifare e di volerlo superare.
Guardare le opere degli altri è il miglior modo per trovare l'energia per continuare le proprie.
Davanti a un tramonto l'uomo non-artista si emoziona e lo ammira. L'artista si emoziona e vuole dipingerlo.

Magritte nel 1928-29 scrive su un suo quadro “Questo non è una pipa”, indicando che l’opera rappresenta la realtà, ma non è la realtà stessa. Questo pensiero però, non gli ha impedito di dipingere per altri 40 anni.
La pittura, se vista da un certo lato, è solo un ammasso di materia colorata sopra altra materia.
Tuttavia il pensiero di cosa sia “realmente” la pittura non mi impedisce di dipingere.
Così come sapere che il linguaggio è un insieme di suoni convenzionali non mi impedisce di parlare. 
Così come sapere che dovrò morire non mi impedisce di vivere.

La pittura è sempre stata figurativa e narrativa, il fatto che negli ultimi 50 anni non sia stato così, non importa. L’arte è senza tempo, non esiste una successione temporale e progressiva, l’arte non è mai anacronistica.

L'artista non può essere materialista, ma è sempre metafisico e spirituale. A lui non interessa la materia in sé ma ciò che sta dietro e ciò che quella materia simboleggia. L'artista non riesce solamente a vivere ma è interessato a ciò che è oltre la vita.

L'arte contemporanea studia il reale non più attraverso il pensiero artistico ma attraverso quello scientifico. Non rende giustizia alla vita, non lascia che essa viva, al contrario la uccide analizzandola, sezionandola razionalmente.

L'arte non è razionale o irrazionale, ma è un tipo di pensiero ulteriore.

Nell’arte denominata come “informale” o “espressionista” la tecnica diventa il fine. Per sua volontà quest’arte non comunica niente, non dice, non prende posizione e si lascia interpretare in ogni modo da chiunque la guardi.

Se disegno un fiore astratto, espressivo, simbolico, esso rappresenta tutti i fiori del mondo. Posso associarlo ad una margherita come ad un geranio. Uniforma tutti i fiori, li ingloba in un unico segno, è un disegno metafisico, è il tutto-uguale.
Se invece disegno ogni singolo fiore, nella sua unicità, riesco a capire non soltanto le differenze tra diverse specie di fiore, ma le differenze tra ogni singolo, unico fiore, rispetto a un altro della sua stessa specie. Niente è uguale, una cosa non è neanche uguale a se stessa.
Il disegno tutto-uguale non sarà mai sbagliato, qualsiasi segno sarà giusto in quanto frutto della “libera creatività”.
Il disegno di-volta-in-volta-diverso non potrà mai diventare stile e maniera, cambierà sempre perché è il frutto di un ragionamento che affronta la cosa da rappresentare ogni volta in maniera differente a seconda delle sue caratteristiche.

Esistono i disegni sbagliati.
Un disegno sbagliato è irrimediabilmente tale, si può solo buttarlo e farne un altro.

L’arte nasce dalla vita. Se non ho vissuto non potrò mai creare un’opera d’arte. Se la mia vita si riduce allo studio dell’arte, creerò soltanto meta-arte che parlerà di se stessa, non più della vita.

L’opposto del nichilismo è il sacro. Il nichilismo porta qualsiasi cosa allo stesso livello, non crea distinzioni non crea gerarchia. Il sacro, invece, delimita ciò che è diverso.
L’arte del 900 è stata essenzialmente nichilista. Essendo arte ha quindi anticipato i tempi. Dall’impressionismo si è iniziato a concepire il reale così com’è, senza significati ulteriori. Si è continuato analizzando soltanto la parte fisica, materiale e calcolabile della realtà. L’apice si è raggiunto con la pop art, la quale uniforma tutto, sostituisce il sacro al profano, si interessa soltanto alla superficie del reale.

L’opposto dell’uomo nichilista è l’uomo onorevole. Il primo vive senza responsabilità, non sceglie ma agisce seguendo un ingenuo concetto di libertà che giustifica qualsiasi cosa egli faccia. Nel mondo nichilista tutto è uguale, uccidere una persona equivale ad amarla.
L’uomo onorevole rispetta delle leggi che si impone attraverso l’autodisciplina. E’ consapevole che infrangendo queste regole nulla cambia. Per lui non esiste un perdono o una salvezza finale, ogni errore rimane indelebile, l’unica cosa che può fare è riconoscerlo come tale e non ripeterlo più. L’uomo onorevole vuole esporre le proprie idee, vuole metterle alla prova per testare la loro solidità.
L’uomo religioso non ha idee proprie ma segue concetti inventati da un altro. Ha paura che mettendoli alla prova questi concetti crollerebbero.

L’artista è l’uomo più onorevole di tutti perché si impegna a creare nel modo migliore possibile qualcosa di totalmente inutile.

Tutta l’arte è sacra perché crea distinzioni, innalza qualcosa a discapito di un’altra. Ogni azione artistica è frutto di una scelta ed è la creazione di una gerarchia.

Lavorare un anno in una segreteria di un centro sportivo mi ha insegnato molte cose riguardo il nichilismo. Uno dei miei compiti era raccogliere i moduli di iscrizione, 4 o 5 per ogni persona, più le fototessere e la carta d’identità. Ogni iscrizione completata finiva in grossi faldoni disposti in ordine alfabetico.
Alla fine della stagione sportiva tutti quei moduli potevano essere buttati, come io stesso ho buttato quelli della stagione precedente.
Ho passato un anno a raccogliere fogli che poi avrei buttato. Ma durante il lavoro mi impegnavo, ritenevo che fossero importanti, credevo che ci volessero tutte le firme apposte negli spazi giusti. Non potevo fare altrimenti. Se avessi pensato “qui manca una firma, ma non fa niente” tutto sarebbe crollato. Il mio lavoro non avrebbe avuto più senso.
Per vivere bisogna credere in quello che si sta facendo, come se fosse la cosa più importante del mondo. Qualsiasi cosa si stia facendo.

Ho studiato in una accademia dove l’accademismo è vietato.
Dove tutti erano talmente “liberi” da rifiutare qualsiasi cosa che non fosse “libera”.
Dove i manieristi dell’informale mi dicevano di non essere manierista.
Credo che nell’arte esistano regole precise, come pure la distinzione tra il bello e il brutto.

Vorrei avere un maestro da seguire e da copiare.
Vorrei essere come quegli scultori antichi, che creavano delle statue che sarebbero state poste sulla cima delle cattedrali, nascoste tra archi, contrafforti e guglie. Nessuno da sotto le avrebbe viste, ma lo scultore sapeva che c’erano.
Lo scultore sapeva che Dio le avrebbe viste e per questo motivo dovevano essere bellissime.
Sapeva che dio avrebbe visto la sua statua e per questo lo avrebbe ricompensato.
Scolpiva per sentirsi migliore di fronte a Dio.

La globalizzazione porta all’uniformità dei costumi. L’arte non può essere uniformata, l’arte vive nel particolare, nel locale. Un’arte globale sarebbe vuota e non rappresenterebbe nulla. Com’è possibile che io possa identificarmi in un’arte che è stata creata in un paese dall’altra parte del mondo? Come posso capire l’arte che nasce dalla vita di un americano, di un indiano, di un africano? Posso solo apprezzarla, ma l’arte che mi rappresenta è soltanto quella nata dalla mia terra. L’arte dunque è universale ma nasce dallo specifico.

Come artista, prima che un essere umano, sono occidentale, europeo, italiano, lombardo, milanese.

La nebbia è una caratteristica del luogo in cui sono nato e cresciuto, è una parte essenziale della terra in cui sono stato destinato. In altri luoghi la nebbia non c’è e le persone che ci vivono non l’hanno mai esperita. Se essa esiste, dove sono nato io, ci sarà un motivo.
Non possiamo eliminare la nebbia, è lei che ci accoglie, siamo noi gli ospiti. Non possiamo sopprimerla perché essa è parte di noi, è la caratteristica della nostra terra. Possiamo soltanto venerarla, ammirarla, passarci in mezzo gustandola fino in fondo, elogiare la sua presenza. Non importa se causa disagi.
I luoghi non sono tutti uguali. La civiltà globalizzata vuole portare tutto all’uniformità, non avere più luoghi caratteristici ma soltanto città identiche in qualsiasi parte del mondo. Grattacieli senza relazione con la terra dove poggiano, senza nessun rapporto con l’essenza del luogo.
Non è viaggiando che si trova la propria casa, ma contemplando la propria terra, amandola e venerandola.
Non si può odiare la nebbia.
Non si può odiare qualcosa che esiste.
Non si può avere l’angoscia di vivere.
Non si può odiare la vita, essa ci appartiene.

Gli artisti moderni sono troppo considerati all’interno della società.

Nessun happening, nessuna performance, nessuno pseudo-rito di Herman Nitsch sarà mai emozionante e coinvolgente quanto una qualsiasi messa in una qualsiasi chiesa. I riti, per essere tali, devono essere condivisi. Nessuno può inventarne di nuovi o importare riti da un passato o da una terra che non appartiene al suo popolo. Gli eventi collettivi per essere emozionanti si devono basare su costumi condivisi e sentiti come propri da ogni persona che vi partecipa.


LCPA

Andrea Mantegna - Pala di San Zeno (particolare)


mercoledì 26 novembre 2014

Heidegger, Heisenberg, Jünger e i Fight Club di Palahniuk.

Nel racconto You Are Here lo scrittore statunitense Chuck Palahniuk descrive l’industria editoriale sempre alla ricerca di storie nuove e gli aspiranti scrittori che finiscono per vivere la propria vita solo per poi poterla raccontare. Non potendo possedere dei beni preziosi essi trasformano loro stessi in storie da mettere in vendita. Scrive Palahniuk:
Il filosofo Martin Heidegger sostiene che gli esseri umani tendono a guardare il mondo come un insieme inerte di materiale a disposizione, pronto per essere utilizzato. Come un magazzino di materie prime da trasformare in qualcosa di maggiore valore. Alberi, in legno. Animali, in carne. Heidegger chiama questo mondo di risorse naturali grezze con il nome di Bestand, “fondo”. Pare inevitabile che le persone prive di accesso al Bestand naturale, come pozzi di petrolio o miniere di diamanti, si volgano all’unico magazzino che possiedono: le loro stesse vite. Il Bestand della nostra epoca tende sempre più a diventare la nostra proprietà intellettuale. Le nostre idee. Le nostre storie di vita. La nostra esperienza. Tutto ciò che una volta fronteggiavamo o di cui godevamo –tutti quegli elementi della trama che vanno dall’allenamento al vasino alla luna di miele al cancro ai polmoni- ora si può plasmare per ottenere un maggiore effetto, e rivendere. (…) Si può speculare sulla propria vita –anche semplicemente distorcendo gli eventi, ritoccandoli per accentuarne l’impatto drammatico, esagerandoli fino al punto di dimenticare la tua storia vera, dimenticare chi sei – a uso e consumo di una storia vendibile?
Palahniuk parte dalle considerazioni sulla tecnica moderna compiute dal filosofo tedesco Heidegger.
Per Heidegger la questione della tecnica è un punto centrale su cui tornerà più volte e che si ritrova lungo tutto il suo percorso filosofico. Nel suo famoso discorso intitolato La questione della tecnica, tenutosi nel 1953, Heidegger descrive l’essenza della tecnica moderna partendo dalla parola greca τέχνη (Tèchne) con cui i Greci indicavano sia il lavoro artigianale sia l’arte.
Anzitutto, τέχνη non è solo il nome del fare artigianale e della capacità relativa, ma anche dell’arte superiore e delle belle arti. La τέχνη appartiene alla pro-duzione, alla ποίησις; è qualcosa di poietico. Il secondo punto da considerare circa la parola τέχνη è ancora più importante. Dalle origini fino all’epoca di Platone la parola τέχνη si accompagna alla parola έπιστήμη. Entrambe sono termini che indicano il conoscere nel senso più ampio. Significano il «saperne di qualcosa», l’«intendersene». Il conoscere dà apertura. In quanto aprente, esso è un disvelamento. Aristotele, in una trattazione particolare (Eth. Nic. VI, 3 e 4) distingue la έπιστήμη e la τέχνη, in base al che cosa e al modo del loro disvelare. La τέχνη è un modo dello άληθεύειν. Essa disvela ciò che non si pro-duce da se stesso e che ancora non sta davanti a noi, e che perciò può apparire e ri-uscire ora in un modo ora in un altro. Chi costruisce una casa o una nave, o modella un calice sacrificale, disvela la cosa da pro-durre rispetto ai quattro modi del far-avvenire. Questo disvelare riunisce dapprima l’aspetto e la materia della nave e della casa nella visione compiuta della cosa finita e determina su questa base le modalità della fabbricazione. L’elemento decisivo della τέχνη non sta perciò nel fare e nel maneggiare, nella messa in opera di mezzi, ma nel disvelamento menzionato. In quanto tale, non però intesa come fabbricazione, la τέχνη è un pro-durre.

La τέχνη non indica il mero fare artigianale e manuale, ma è piuttosto un “sapere”, una conoscenza intesa come il “portare alla luce” qualcosa, il disvelare un oggetto e quindi, in questo modo, conoscerlo. Il disvelamento della τέχνη è una pro-duzione, diversa dalla fabbricazione moderna. La produzione, infatti, si fonda sull’ἀλήθεια (Aletheia), ovvero su quello che Heidegger chiama il “disascondimento dell’essente”. La produzione è un “far-avvenire” e non si riferisce soltanto agli enti artificiali, creati dall’uomo, ma anche a quelli naturali. Ogni ente naturale, infatti, è una produzione che ha la causa del proprio essere dentro di sé, mentre ogni ente artificiale è causato da qualcosa di esterno ad esso. Il fattore che determina ogni produzione è la causalità. Ovvero ogni cosa viene ad esistere per mezzo di quattro cause:
1. La causa materialis, ovvero la materia di cui essa è fatta.
2. La causa formalis, la forma che la materia assume.
3. La causa finalis, lo scopo a cui la cosa deve servire e che ne determina la materia e la forma.
4. La causa efficiens, che produce l’effetto. Se una cosa è artificiale, essa è l’uomo, mentre gli enti naturali portano al loro interno la propria causa efficiens.

Tuttavia la causalità intesa dai greci ha un significato diverso da quello che si intende con “causa” dai romani in poi. Solitamente si tende a considerare solo l’ultima delle quattro cause, la causa efficiens, come l’unica e più importante nella produzione di un oggetto, identificandola con l’operare dell’uomo. Ma la causalità dei greci non ha niente a che fare con l’operare o l’effettuare, essa si configura come un “essere responsabile”. Prendendo come esempio un calice d’argento, Heidegger spiega che le quattro cause che agiscono sul calice sono tutte responsabili del suo essere. Il calice deve la sua materia, la sua forma e il suo scopo alle prime tre cause ed infine viene l’orafo che è corresponsabile della produzione del calice, ma non la sua unica causa. Le quattro cause agiscono insieme e in connessione fra loro e sono responsabili insieme della formazione dell’oggetto. L’”essere responsabili” dei greci ha un significato diverso da come lo si intende ora. Non è una responsabilità morale, ma è il far apparire una cosa, è il portare nel disvelamento un ente che prima era nascosto. Scrive Heidegger:

L’esser-dinnanzi e l’esser-disponibile caratterizzano la presenza di una cosa-presente. I quattro modi dell’esser-responsabile portano qualcosa all’apparire, fanno sì che questo qualcosa si avanzi nell’apparenza. Essi lo liberano, per questo suo avanzare, cioè per il suo compiuto avvento. L’essere responsabile ha il carattere fondamentale di questo lasciar-avanzare nell’avvento. Nel senso di questo lasciar-avanzare l’esser-responsabile è il far avvenire.

Il far avvenire è il portare qualcosa nella presenza. Qualsiasi cosa, dunque, non viene creata dal nulla per mezzo dell’uomo, ma viene liberata dalla materia di cui è fatta, attraverso la responsabilità delle quattro cause. La produzione quindi ha un significato molto più ampio rispetto al normale operare, essa appartiene appunto al disvelamento dell’essente. L’analisi del concetto di disvelamento dell’essente, però, ci porterebbe troppo lontano, continuiamo quindi a percorrere l’analisi del filosofo riguardo la tecnica.

Una volta determinata l’essenza della tecnica antica Heidegger approfondisce le differenze fondamentali che distinguono la tecnica intesa dai Greci come produzione dalla contemporanea tecnica moderna. Entrambe, dice, sono dei modi per portare ad esistere una cosa, tuttavia la tecnica moderna non è più un disvelamento come produzione, ma come «provocazione». La provocazione impone alla natura di svelarsi come riserva di energia che può essere estratta e accumulata. La terra, ad esempio, non è più coltivata dal contadino che affida i semi alla forza della natura, ma adesso è provocata dalla tecnica e disvelata come riserva di minerali. La stessa cosa vale per un fiume su cui si impianta una centrale elettrica, il fiume ora è impiegato nel far girare le turbine che permettono di produrre energia elettrica da immagazzinare e usare per altri scopi. Il fiume è lo stesso di quando non c’era la centrale elettrica, ma ora è svelato come produttore di energia. La tecnica moderna è, quindi, una modalità del disvelamento che ha il carattere della provocazione, nel senso che svela le energie nascoste della natura, le trasforma e le immagazzina. Azioni, queste, che non potevano essere fatte dalla tecnica come produzione. In questo processo ciò che è impiegato nella provocazione è definito da Heidegger come «fondo». Con “fondo” intende tutto ciò che, sotto il disvelamento della provocazione, non è più considerato come un oggetto, ma come una riserva pronta per essere impiegata. Il fondo non è solo un materiale per fornire energia. Anche un aereo o un’automobile sono, ad esempio, un fondo, in quanto diventano impiegati per spostarsi. Sotto la tecnica moderna ogni cosa esiste a partire dal suo essere fondo, ovvero dal suo essere impiegata per qualcos’altro. Nella provocazione l’uomo è una parte attiva ma ugualmente provocata, esso è impiegato affinché controlli e assicuri l’impiegabilità di tutte le cose. L’uomo è impiegato in modo più originario e partecipa, anche se inconsapevolmente, alla provocazione.

E qui torniamo a Palahniuk, il quale aveva domandato “si può dimenticare chi sei?”
Dimenticarsi chi si è, però, è proprio l’effetto che compie la tecnica moderna come “provocazione” sull’uomo. Come osserva ancora Heidegger nel suo discorso, riferendosi ora ad un discorso precedente del fisico tedesco Werner Heisenberg, suo contemporaneo:
Così si viene diffondendo l’apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è prodotto dell’uomo. Questa apparenza fa maturare un’ulteriore ingannevole illusione. E l’illusione per la quale sembra che l’uomo, dovunque, non incontri più altri che se stesso. Con piena ragione Heisenberg ha fatto notare che all’uomo di oggi il reale non può che presentarsi in questo modo. In realtà, tuttavia, proprio se stesso l’uomo di oggi non incontra più in alcun luogo; non incontra più, cioè, la propria essenza. L’uomo si conforma in modo così decisivo alla pro-vocazione che non la percepisce come un appello, non si accorge di essere lui stesso l’appellato e quindi si lascia sfuggire tutti i modi secondi i quali egli ek-siste nell’ambito di un appellare, per cui non può mai incontrare soltanto se stesso.
Heisenberg, infatti, a conclusione delle sue osservazioni riguardo la modalità di ricerca della scienza moderna, sostiene che l’uomo non possa più relazionarsi alla natura in modo puro. Gli scienziati, nella sua visione, non studiano più la realtà in sé ma soltanto la conoscenza che essi hanno della natura. L’uomo non è più contrapposto alla natura come nelle epoche passate. Nella modernità egli ha talmente trasformato il mondo che, ovunque guardi, vede soltanto prodotti dell’uomo, non trova più nel mondo nient’altro di diverso da se stesso. L’immagine della natura che l’uomo ha creato con la scienza moderna non è più l’immagine esatta della natura, ma l’immagine dei rapporti che ha con essa. Per descrivere questa situazione Heisenberg usa l’immagine di una nave costruita in acciaio e ferro, sopra cui l’uomo non può più orientarsi, in quanto la bussola che egli usa indica soltanto la nave stessa.
Con l’estensione apparentemente illimitata della sua potenza materiale, l’umanità finisce per trovarsi nella situazione di un capitano la cui nave è così saldamente costruita di acciaio e di ferro che l’ago magnetico della sua bussola indica solo la massa ferrosa dello scafo e non segna più il nord. Con una nave così non è più possibile raggiungere meta alcuna; essa navigherà solo in cerchio e sarà abbandonata al vento e alle correnti.
L’uomo è così abbandono a sé e prende se stesso come suo unico punto di riferimento. Per riuscire a tornare a navigare liberamente, dice Heisenberg, il primo passo è divenire cosciente del fatto che la bussola stia indicando solo la nave, in questo modo il pericolo sarà per metà superato. Successivamente l’uomo dovrà trovare nuovi mezzi per la navigazione, costruendo delle bussole migliori, oppure ritornando a orientarsi con le stelle.
Quasi per assurdo è proprio questo non vedere altro che prodotti umani che fa dimenticare all’uomo chi egli sia. Dimenticarsi chi si è vuol dire non ricordarsi della propria essenza e non porsi più la domanda riguardo il proprio essere uomini.
Ripartiamo ancora da Palahniuk.
Nel suo romanzo più famoso, Fight Club, si trovano altri spunti e riflessioni che si avvicinano a quelle di un altro filosofo tedesco vicino al pensiero di Heidegger, ovvero Ernst Jünger.
In Figt Club Palahniuk descrive la condizione dell’uomo medio suo contemporaneo. La sua generazione, dice, è cresciuta in un periodo intermedio della storia, in cui non c’è una grande guerra, non c’è una grave depressione, i figli di questa generazione sono stati cresciuti dalla televisione, sognando un giorno di diventare milionari o rockstar. Ma il mito del successo sta iniziando a crollare.
Il protagonista del libro è un tipico americano medio, ha una vita tranquilla, un lavoro sicuro e una casa perfetta. Durante uno dei suoi viaggi di lavoro conosce Tyler Durden, il suo opposto, l’uomo libero che ha sempre sognato di essere. Insieme a lui fonda i Fight Club, ovvero incontri di lotta libera clandestini, organizzati in luoghi segreti, in cui le persone possono sfogarsi attraverso una violenza senza alcuna regola.
Ernst Jünger, nel suo scritto intitolato Oltre la linea analizza il problema del nichilismo e della possibilità di un suo superamento. Jünger chiama l’uomo della sua epoca il lavoratore, in quanto per il filosofo l’uomo moderno guarda la realtà esclusivamente attraverso la lente della tecnica e più in particolare guarda ogni cosa sotto l’aspetto del lavoro. Per l’uomo ogni cosa esiste se è di fatto lavorabile o utilizzabile per qualcos’altro. Ciò che non rientra nell’ottica del lavoro e dell’utilizzo tecnico cessa di esistere. Ogni persona diventa quindi un piccolo ingranaggio della grande industria del lavoro. Vengono a perdere di senso anche tutte le associazioni industriali o sindacali, che Jünger descrive in questo modo:
Predisposte come sono al puro funzionamento, il loro ideale consiste nel non far niente di più che «premere il pulsante» o «girare l’interruttore».
Palahniuk descrive in modo molto simile la situazione dell’uomo moderno. Lo chiama ironicamente «scimmia spaziale», riferendosi a quegli animali spediti nello spazio a bordo di una navicella, per un viaggio senza ritorno.
C’è un silenzio così grande quassù, che la sensazione che hai è di essere una di quelle scimmie spaziali. Fai quel po’ di lavoro per cui sei addestrato. Tiri una leva. Schiacci un bottone. Non ci capisci niente e a un certo punto muori e basta.
Se la vita del lavoratore si riduce a questo, il protagonista del libro cerca di uscirne, attraverso un percorso di autodistruzione e violenza. Palahniuk fa dire al personaggio:
All’epoca la mia vita mi sembrava troppo completa e forse abbiamo bisogno di spaccare tutto per tirare fuori qualcosa di meglio da noi stessi.
La sua forza distruttrice si scaglia contro tutto ciò che per le persone contemporanee è sacro, inviolabile. Vuole cancellare dal mondo tutta la storia e tutto ciò che è considerato bello.
Non c’è niente di statico. Persino la Gioconda se ne va in pezzi. Forse l’automiglioramento non è la risposta. Forse la risposta è l’autodistruzione.
In questa sua visione nichilistica dell’esistenza niente ormai ha più senso, i combattimenti nei fight club ne sono la testimonianza. La loro violenza è totalmente inutile e gratuita, finito il combattimento non si è risolto niente.
La via per uscire dal nichilismo, per Jünger, è attraversarlo interamente. Per il protagonista del libro di Palahniuk bisogna «toccare il fondo» per poter risalire.
Tyler dice che io non sono nemmeno vicino ad aver toccato il fondo. E se non precipito completamente non posso essere salvato. (…) Io dovrei separarmi dall’automiglioramento e dovrei lanciarmi a capofitto verso il disastro. (…) Solo dopo il disastro si può risorgere. (…) E’ solo dopo che hai perso tutto che sei libero di fare qualunque cosa.
I fight club iniziano ad aumentare e nascere in tutto America, vi partecipano molte persone, di qualsiasi estrazione e professione. Tyler Durden, l’alter ego del protagonista, decide di andare avanti e creare qualcosa di più forte, qualcosa che scuota gli animi delle persone, che risvegli le coscienze. Il suo scopo è far capire alle persone che ognuna ha dentro di sé tanta forza per poter cambiare il mondo. Tyler crea il «Progetto Caos», riunisce quindi un suo piccolo esercito organizzato per portare il disordine nelle città attraverso azioni violente senza senso o logica alcuna.
Il caos, il disordine, sembrerebbe il segno distintivo del nichilismo ma, come sostiene Jünger, è invece l’opposto. Il nichilismo, infatti, trova terreno fertile anche e soprattutto all’interno di sistemi ordinati.
Il caos diventa visibile solo nel momento in cui il nichilismo comincia a venir meno in una delle sue combinazioni. È istruttivo vedere che perfino nelle catastrofi le componenti d’ordine sono largamente presenti, addirittura sino alla fine o quasi. È chiaro perciò che l’ordine non solo è ben accetto al nichilismo, ma fa parte del suo stile. Il caos è quindi tutt’al più una conseguenza del nichilismo, e neppure la peggiore. Ciò che è decisivo è quanta parte di vera anarchia si nasconda nel caos, quanta fecondità ancora disordinata. Essa va cercata nell’individuo e nella società, non nei resti di uno Stato in rovina.
Il Progetto Caos inventato da Tyler inizialmente vuole andare contro al sistema d’ordine nichilistico della società. Vuole anzi distruggere completamente la società moderna per poter rifondare un mondo nuovo. Tuttavia nel tentativo di far questo esso ricrea soltanto un altro ordine nichilistico uguale al precedente. Il Progetto Caos si trasforma in un sistema militare, in cui i componenti singoli perdono la propria individualità, credendo cecamente al proprio fondatore e eseguendo le azioni che lui comanda. Ritornano quindi a tirare leve e schiacciare bottoni, senza avere coscienza del progetto generale che stanno attuando.
Un’altra tesi di Palahniuk è che «Se sei maschio e sei cristiano e vivi in America, tuo padre è il tuo modello di Dio. E se non hai mai conosciuto tuo padre, se tuo padre prende il largo e muore o non è mai a casa, che idea ti fai di Dio? (…) La fine che fai è passare la vita a cercare un padre e Dio».
L’autodistruzione è vista come una punizione per ottenere la salvezza, la violenza non è altro che un modo per sentirsi vivi e far sapere al mondo della propria esistenza, è un modo per attirare l’attenzione di Dio. Alla fine del romanzo il protagonista riuscirà a incontrare per davvero Dio e a parlargli. Non giunge, però, a una vera e propria conclusione, ma pensa che «noi non siamo speciali. Non siamo nemmeno merda o immondizia. Noi siamo. Noi siamo soltanto e quello che succede succede soltanto». Nel nichilismo non possono esistere valori come il bene e il male, in quanto non esiste nessun ordine al quale rapportarli. «Quando il nichilismo diventa una condizione normale, all’individuo non rimane che la scelta tra due modi diversi di ingiustizia» dice Jünger. Il protagonista di Fight club rimane in un sistema nichilistico senza valori a cui fare riferimento, nella ricerca continua di un Dio.
Alla ricerca, cioè, di un’entità statica a cui aggrapparsi, di quell'essenza perduta dell’uomo che sente esistere, forse non ancora consciamente.

Chuck Palahniuk

Martin Heidegger

Werner Heisenberg

Ernst Jünger
Testi citati:
Palahniuk Chuck, La scimmia pensa, la scimmia fa, Mondadori, Milano 2006.
Palahniuk Chuck, Fight Club, Mondadori, Milano 2003.
Heidegger Martin, La questione della tecnica, in Le arti nell’età della tecnica, a cura di M. Guerri, Mimesis, Milano 2001

Heisenberg Werner, L’immagine della natura nella fisica contemporanea, in Le arti nell’età della tecnica, a cura di M. Guerri, Mimesis, Milano 2001.
Ernst Junger, Oltre la linea, in Oltre la linea, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1989 
LCPA

giovedì 23 ottobre 2014

L'Onore dell'Uomo Tigre





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In questo articolo parlerò de L’Uomo Tigre, anime realizzato nel 1969 e tratto dall’omonimo manga di Ikki Kajiwara. Si vedrà come questa semplice serie animata rappresenti in profondità non soltanto lo spirito tradizionale del Giappone ma anche la condizione moderna del paese. Questa serie, infatti, riesce a trasmettere lo spirito del tempo nel quale è stata creata, a pochi anni dalla sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale, in seguito alla bomba nucleare e al loro imperatore che, da divinità, si è fatto improvvisamente umano.


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Una breve trama: Nascosta tra le Alpi un’organizzazione criminale denominata La Tana delle Tigri recluta da tutto il mondo bambini orfani e li addestra, attraverso allenamenti durissimi e spesso mortali, per diventare lottatori di wrestling mascherati. Finito l’addestramento i lottatori combatteranno nei tornei di tutto il globo usando tecniche sleali e violando le regole di combattimento, la metà dei soldi guadagnati da questi incontri dovranno quindi tornare all’organizzazione.

A capo della Tana delle Tigri ci sono tre uomini misteriosi che indossano sempre una veste bianca e un lungo cappuccio rosso, che ricorda molto l’abbigliamento usato dagli appartenenti al Ku-Klux-Klan. L’organizzazione ha costruito tra le montagne molti edifici, palestre e dormitori per i ragazzi residenti, tuttavia il complesso ha l’aspetto di un’enorme campo di concentramento, con tanto di guardie che impediscono loro ogni via di fuga.

Gli allenamenti che gli orfani devono affrontare sono durissimi e gli allenatori sono persone senza scrupoli che non esitano a frustare i ragazzi per costringerli a continuare. Ci sono, inoltre, molti dispositivi altamente (per gli anni 70 in cui l’anime nasce) tecnologici e tecnici, come proiettori o computer all’avanguardia in grado di elaborare i dati di ogni singolo lottatore e scegliere i migliori.

Ogni aspetto della Tana delle Tigri sembra ricordare un’organizzazione nazista, forse anche per questo motivo è stata collocata tra le Alpi, vicino alla Germania. In una scena, inoltre, si vedono dei ragazzi con il braccio alzato in un saluto romano diretto verso i capi della Tana.


Naoto Date, il protagonista della serie, è giapponese e fin da piccolo è stato allevato nella Tana delle Tigri. Finito l’addestramento ha iniziato a combattere nei tornei americani indossando una maschera con il volto di una tigre. Per via della sua crudeltà e violenza è stato soprannominato dal pubblico Demone Giallo.


Naoto da piccolo viveva in un orfanotrofio insieme ad altri bambini, tra cui una ragazza, Ruriko, e un altro bambino, Watsuki. Durante una gita allo zoo con gli altri compagni, Naoto viene prelevato dalla Tana delle Tigri e il suo addestramento ha inizio.

Ruriko, Naoto
Dopo aver combattuto in America il Demone Giallo decide di tornare in Giappone per partecipare ai tornei nipponici, qui, a differenza dei tornei americani, i lottatori sono uomini leali che combattono correttamente. Anche il pubblico non apprezza chi infrange le regole o usa tecniche scorrette. Il Demone Giallo è quindi subito accolto negativamente, facendosi riconoscere per la sua violenza. Soltanto un ragazzino, di nome Kenta, diventa un ammiratore del Demone e una sera scappa dall’orfanotrofio dove vive per andare allo stadio ad assistere un incontro del suo amato lottatore. Kenta vive nell’orfanotrofio gestito da Ruriko e Watsuki, i compagni di un tempo di Naoto. Durante l’ennesimo sanguinoso incontro del Demone, Kenta si avvicina al ring incitando il suo beniamino, incoraggiandolo ad essere ancora più crudele. A questo punto Ruriko, accorsa per cercare Kenta, supplica il Demone Giallo di non essere più violento, in quanto rappresenta un modello negativo per i bambini che lo stanno guardando e soprattutto per Kenta.


Uomo Tigre, Kenta, Ruriko
Il Demone Giallo, che altri non è che Naoto, decide quindi di ravvedersi e di cambiare il suo comportamento sul ring. Va a visitare, senza maschera e nascondendo la sua identità di lottatore, l’orfanotrofio dove è vissuto. Qui scopre che Ruriko e Watsuki hanno problemi finanziari e la casa di accoglienza rischia di chiudere. Il Demone Giallo, quindi, deciderà che non combatterà più in modo sleale e diventerà l’Uomo Tigre. Combatterà, d’ora in poi, soltanto in modo leale e i soldi guadagnati dagli incontri andranno inizialmente all’orfanotrofio di Ruriko e successivamente per aiutare tutti gli orfani che incontra, o in generale per alleviare le sofferenze delle persone che, in ogni episodio, Naoto conosce.

Questa sua decisione, però, non piace a Tana delle Tigri, la quale gli chiede, attraverso il suo emissario di nome Mister X, di ricominciare a versare la metà delle sue vincite all’organizzazione, altrimenti sarà considerato un traditore e sarà perseguitato fino alla morte. Naoto non accetta e si prepara a sfidare ogni lottatore mascherato malvagio che la Tana, da adesso, gli manderà contro per ucciderlo, sia sopra che fuori dal ring.

Naoto, Mister X, Uomo Tigre

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L’Uomo Tigre, oltre ai contenuti di cui parleremo, è una serie animata di grande qualità. Lo stile del disegno cambia leggermente in ogni episodio, si individuano diversi disegnatori che si alternano, ognuno comunque ha uno stile assolutamente fresco, vivo e dinamico. I personaggi sono delineati con segni molto espressivi, con linee agili che conferiscono forza a tutta l’animazione. Le proporzioni sono spesso esasperate, così come i punti prospettici, creando delle immagini assolutamente epiche e di forte impatto.


Alcune scene sono totalmente fantasiose, sfondi naturalistici si mischiano a getti di colore, panorami informi, scenografie composte da collage di fotografie, macchie colorate e texture creano dei piccoli capolavori.


La sceneggiatura e lo svolgimento dell’episodio sono eccellenti, alcune puntate raggiungono un pathos finale che quasi fa commuovere. Nel mezzo di combattimenti crudi e rumorosi spesso inaspettatamente tutto ammutolisce, la scena continua tra un silenzio che lascia senza fiato.



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La Tana delle Tigri, come si è visto, è un’organizzazione di stampo quasi nazista in cui gli orfani sono addestrati a seguire la legge del più forte e le regole imposte con la violenza. È costruita, inoltre, come una macchina perfetta, altamente tecnologica, in cui i ragazzi sono allenati non soltanto da altre persone ma anche da fantasiose macchine che fortificano i loro corpi. Sotto questi aspetti la Tana può essere la rappresentazione di una distopia moderna, in cui pochi uomini, con l’aiuto della tecnologia, rendono schiavi i ragazzi rapiti. Si può trovare, però, un ulteriore significato. La Tana, infatti, è anche la rappresentazione del nichilismo e dell’assenza di ideali del mondo contemporaneo, i ragazzi sono allenati duramente con il fine di guadagnare quanti più soldi possibili, usando come mezzo soltanto l’odio e la violenza, l’organizzazione non ha altro scopo oltre quello di guadagnare a qualsiasi costo.
Naoto è passato attraverso tutto questo, ha conosciuto il nichilismo della Tana, si è allenato duramente e ha combattuto senza regole, ma soprattutto, senza un vero motivo per cui farlo. Dal momento in cui è diventato un traditore lo scopo della Tana non è stato altro che ucciderlo, non soltanto per vendicarsi, ma anche perché Naoto rappresenta un uomo libero che ha deciso individualmente di non seguire più una strada senza scopo né regole, votata alla violenza e all’autodistruzione, ma di perseguire un’ideale di onestà.

La Tana delle Tigri
Tutti i lottatori della Tana che Naoto sconfigge sul ring, sono per lui soltanto delle vittime e quindi ha pietà di loro. Ogni volta che, finito il combattimento, toglie loro la maschera, si accorge che essi sono uomini come lui, a cui la Tana ha fatto il lavaggio del cervello e li ha trasformati in assassini.


La colossale statua-simbolo della Tana

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La storia di Naoto Date è quella di un uomo tormentato, da quando decide di staccarsi dalla Tana la sua vita cambia completamente. Prima di quell’avvenimento Naoto combatteva in America con il nome di Demone Giallo, la sua vita era immersa nel puro nichilismo, per lui non esistevano regole o ideali, contava soltanto la violenza. La sua era anche una vendetta contro la vita che lo aveva reso così, “uccidere per non essere ucciso”, era il suo unico pensiero. In seguito all’incontro con Kenta, il suo piccolo ammiratore, giura a se stesso di combattere lealmente anche contro chi non lo fa, in nome della giustizia. Da quando decide di smettere con tutto questo, però, più volte ci ricade, lasciandosi andare a qualche mossa scorretta durante gli incontri.

Naoto Date
Il messaggio che Naoto vuole dare agli orfani che lo ammirano è di non cedere incamminandosi sulla strada della violenza, questi bambini hanno davanti una scelta, la prima opzione è quella della Tana delle tigri, la seconda quella dell’Uomo Tigre. Naoto insegna agli orfani il significato dell’onore.
L’onore, come lo intendo qui, non c’entra niente con l’accezione che si da oggi al termine, accostandolo alla virilità, alla forza fisica, alla vendetta, al maschilismo e così via… L’onore dell’Uomo Tigre, e in generale l’uso positivo del termine, non c’entra niente con la violenza. Naoto insegna sempre ai bambini che è con l’onestà e la bontà che ci si fa strada nella vita, mai con la forza. Non sono neanche i soldi ciò che contano infine, ma l’aver vissuto una vita corretta e onorevole. Ma cos’è quindi l’onore?


L’onore è una promessa che si fa con se stessi, imponendosi delle regole e rispettandole con autodisciplina. Chi ci obbliga a farlo? Nessuno, è proprio questo l’aspetto difficile dell’essere onorevole. Il nichilismo, che è l'opposto dell'onore, attira a sé grazie alla sua imbarazzante facilità, cosa ci vuole, infatti, a fare tutto ciò che si vuole, senza rispetto per nessuno? L’Uomo Tigre avrebbe vinto più facilmente gli incontri se avesse usato mosse scorrette, è questo il punto. Chiunque può fare ciò che si sente di fare in quel momento, ma non è questa la vera libertà onorevole. È difficile mantenere l’onore proprio perché ce lo si autoimpone e infrangerlo non comporta nessuna conseguenza. Ma sorge subito un problema, come si fai, infatti, a imparare da soli le regole dell'onore, se non si ha una guida? Imparando dagli errori e non ripetendoli, anche questo insegna Naoto Date.


La crescita e la trasformazione del personaggio di Naoto Date, durante la serie, non è soltanto superficiale ma essenziale. Da uomo, infatti, indossando la maschera dell’Uomo Tigre, diviene un simbolo. Alla fine Naoto non combatte più per un fatto personale, non cederà più alle tentazioni in quanto l’Uomo Tigre non è più un individuo, ma un’entità anonima e impersonale. Nell’episodio 94 intitolato appunto L’Onore dell’Uomo Tigre, tutto ciò diviene chiaro: Naoto ha un incontro da affrontare, ma per vari problemi non riesce ad arrivare in tempo al palazzetto dove si svolgerà il combattimento. Al suo posto, quindi, sarà Ken (un suo grande amico e anch’esso lottatore) a combattere. L’Uomo Tigre, infatti, non è più una figura legata a Naoto ma diventa un simbolo che anche il suo discepolo può incarnare, ciò che conta è che esso non muoia, che mantenga la sua dignità e il suo onore di fronte al pubblico. Naoto ormai non deve più seguire se stesso o le sue ambizioni personali, ma rispettare il ruolo che l’Uomo Tigre rappresenta.


Anche la figura degli orfani è fondamentale e racchiude in sé molto di più di quel che sembra. Essi non rappresentano soltanto i bambini che hanno perso i genitori, ma qualsiasi uomo e donna che non ha, dalla nascita, alcun punto di riferimento da seguire nella vita. L’epoca moderna, non solo in Giappone, è piena di persone che, pur avendo dei genitori, sono intimamente orfane. L’Uomo Tigre è la metafora di tutta questa situazione, è un uomo che ha attraversato il nichilismo della tana delle tigri, uscendone da solo e diventando una guida per tutte quelle persone che nel nichilismo ancora ci sono immerse. L’Uomo Tigre che non è più un individuo, ma un’idea, uno scopo e un’ideale che per sua natura non può che essere immortale e invincibile.


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La bellezza di questa serie animata risiede molto nelle piccole storie di vita quotidiana che tanti episodi mostrano. A volte l’intero episodio è incentrato su vicende che non sembrano riguardare la lotta libera e il tempo riservato al combattimento dell’Uomo Tigre occupa soltanto i minuti conclusivi.


Le storie raccontate riguardano sempre persone povere, spesso piccoli artigiani. E’ sempre presente, in generale, un’attenzione verso le piccole cose di tutti i giorni e verso i mestieri più umili. L’Uomo Tigre incontra queste persone che, pur nella miseria, cercano di vivere onestamente e di lottare. Che sia la proprietaria di un piccolo chiosco che vende dolci, o un artigiano del cuoio o ancora una coppia che costruisce modellini del memoriale della pace di Hiroshima, i quali sono poi venduti a caro prezzo al solo scopo di far arricchire il rivenditore che li sfrutta. Ogni storia è raccontata con delicatezza e minimalismo tipicamente giapponese, ogni incontro darà all’Uomo Tigre una motivazione per la quale combattere sul ring e, con i soldi guadagnati, aiutare queste persone. Contrapposto a tutto questo c’è la vita frenetica delle città industriali e inquinate, le automobili, spesso, sono il simbolo di questa modernità nemica e ostile a chi vive semplicemente.


Lo stile di vita giapponese è anche confrontato con quello americano, a partire dal wrestling, che in Giappone mantiene ancora lo spirito delle antiche arti marziali e in cui, pur essendo uno sport agonistico, i lottatori combattono lealmente. In America, invece, i combattimenti sono sempre sanguinosi e senza regole, la lotta è pura violenza, l’unico obiettivo dei combattenti è la fama e il denaro. Il materialismo americano è quindi contrapposto alla spiritualità nipponica e, come vedremo, questo paragone ha anche un rimando storico preciso.


Il finale della serie è magnifico. Scordatevi l’happy ending, qui, lo ripeto, non siamo in America, siamo in Giappone. Il Male viene sconfitto in una battaglia finale, certo, ma a caro prezzo. Naoto commette uno sbaglio e deve rimediare, non ha nessun Dio da supplicare di redimerlo dai suoi peccati. Nell’etica del samurai non esistono i peccati, ma soltanto gli errori. Non si può sperare in un perdono e in una salvezza ultraterrena, agli errori si rimedia da soli attraverso gesti estremi. L’Uomo Tigre continuerà a vivere in quanto simbolo superindividuale, ma non sarà più la stessa cosa in quanto si è rivelato umano.


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Il primo Gennaio del 1946, con poche frasi in un discorso via radio, l’imperatore del Giappone Hirohito dichiarava di non essere un diretto discendente della dea del sole Amaterasu e che né lui né i giapponesi possedevano una natura divina. Fu un evento storico, in quanto fino a quel momento l’imperatore era considerato dai giapponesi al pari di una divinità. Dietro questo evento c’è la sconfitta e l’occupazione del Giappone da parte dell’America, c’è anche la morte di Dio che ormai diviene un fatto universale. L’aspetto interessante qui è l’essenza dell’essere un imperatore divino.

La dea del sole Amaterasu
Nel nostro pensiero moderno e occidentale è difficile comprendere come si possa ancora credere nella discendenza divina di un sovrano, o come si possa, ad esempio, suicidarsi alla notizia che il proprio imperatore si è dichiarato umano. Ma il re, o l’imperatore, come essere divino, non va pensato come un uomo individuale, ma come un simbolo. Il sovrano non è un uomo e non importa chi individualmente egli sia, né in che modo egli governi. Esso, infatti, non deve fare nulla per governare, la sua sola presenza è importante, in quanto incarna il divino. L’imperatore non è un uomo, ma il mezzo che i sudditi hanno per entrare in contatto con il loro Dio. Un’interpretazione dell'imperatore in questo senso la si trova nel bellissimo libro di Julius Evola Rivolta contro il mondo moderno, in cui il filosofo italiano spiega l’importanza che nelle civiltà tradizionali l’imperatore ha avuto in quanto incarnava il terzo potere centrale tra il cielo e la terra.

L'imperatore Hirohito
L’imperatore deve essere una guida, un maestro, un punto di riferimento intorno a cui tutto il suo popolo si raduna. In esso vivono le tradizioni e il fondamento del popolo stesso, per questo deve essere superiore a tutti, intoccabile e ingiudicabile dalle persone comuni. La fedeltà all’imperatore non è rivolta alla sua persona, ma agli ideali che esso incarna e che costituiscono il fondamento del popolo. Oggi chi comanda una nazione lo fa sempre attraverso la violenza e l’inganno, la fedeltà non è mai innata e reciproca ma sempre imposta con la forza, o nasce da questioni di interesse.

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Il venticinque Novembre 1970, lo scrittore, saggista, poeta, attore e regista giapponese Yukio Mishima leggeva il suo Proclama in diretta tv, terminato il quale lo scrittore si suicidò attraverso il rituale del seppuku, ovvero tagliandosi il ventre. Nel suo ultimo discorso Mishima insorgeva contro la mancanza di ideali nazionali dei politici giapponesi e del popolo, lo scrittore stesso aveva fondato un suo piccolo esercito parallelo a quello ufficiale, il quale era incapace per lui di difendere veramente la patria e di combattere in nome di veri valori. Si scagliava, inoltre, contro il controllo americano che impediva ulteriormente che un vero esercito autonomo nascesse in Giappone.

Yukio Mishima
Chiudo questo articolo con un estratto di una poesia di Yukio Mishima in cui descrive la sua visione del Giappone e del suo imperatore, il quale, per lo scrittore, aveva assolutamente sbagliato professandosi umano. Nella poesia descrive il Giappone contemporaneo e sembra pensare che l’imperatore doveva rimanere fuori rispetto a tutto ciò. L’imperatore non deve avere qualità popolari, terrene, inferiori. La sua forza sta proprio nel fatto che il suo potere derivi dall’alto, dalla perfezione che tutti vorrebbero raggiungere e che quindi attraverso di lui si fa più afferrabile. Esso doveva stare al di sopra di questo mondo meschino per dare una speranza a chi ne era dentro. Doveva starne fuori per fare da guida, per dare un motivo alto per cui lottare e uscire dal fango.

Se, infatti, anche l’imperatore è qui dentro con noi, è un uomo anche lui, vuol dire che non esiste nient’altro oltre a questo?

Una decadente bellezza
invade il mondo,
soltanto le ignobili verità sono credute,
cresce delle automobili il numero
e l'insulsa velocità frantuma le anime.
Si costruiscono edifici immani,
ma crollano le grandi cause,
le finestre sono rischiarate da luci al neon
dei desideri insoddisfatti,
un mattino dopo l'altro
sorge un sole opaco di smog,
ottusi sono i sentimenti,
smussati gli angoli acuti.
Le anime appassionate e virili
abbandonano la terra,
torbido sangue ristagna nella pace,
secco e inaridito
non zampilla più nella sua purezza.
Chi volava nel cielo ha le ali spezzate,
mentre le termiti dileggiano
la gloria immortale.
In simili giorni,
perchè mai Sua Maestà
diviene un uomo comune?


LCPA