Nel
racconto You Are Here lo scrittore statunitense
Chuck Palahniuk descrive l’industria editoriale sempre alla ricerca di storie
nuove e gli aspiranti scrittori che finiscono per vivere la propria vita solo
per poi poterla raccontare. Non potendo possedere dei beni preziosi essi
trasformano loro stessi in storie da mettere in vendita. Scrive Palahniuk:
Il filosofo Martin Heidegger sostiene che
gli esseri umani tendono a guardare il mondo come un insieme inerte di
materiale a disposizione, pronto per essere utilizzato. Come un magazzino di
materie prime da trasformare in qualcosa di maggiore valore. Alberi, in legno.
Animali, in carne. Heidegger chiama questo mondo di risorse naturali grezze con
il nome di Bestand, “fondo”.
Pare inevitabile che le persone prive di accesso al Bestand naturale, come pozzi di petrolio o miniere di diamanti,
si volgano all’unico magazzino che possiedono: le loro stesse vite. Il Bestand della nostra epoca tende
sempre più a diventare la nostra proprietà intellettuale. Le nostre idee. Le
nostre storie di vita. La nostra esperienza. Tutto ciò che una volta
fronteggiavamo o di cui godevamo –tutti quegli elementi della trama che vanno
dall’allenamento al vasino alla luna di miele al cancro ai polmoni- ora si può
plasmare per ottenere un maggiore effetto, e rivendere. (…) Si può speculare
sulla propria vita –anche semplicemente distorcendo gli eventi, ritoccandoli
per accentuarne l’impatto drammatico, esagerandoli fino al punto di dimenticare
la tua storia vera, dimenticare chi sei – a uso e consumo di una storia vendibile?
Palahniuk
parte dalle considerazioni sulla tecnica moderna compiute dal filosofo tedesco
Heidegger.
Per Heidegger la questione della tecnica è un punto centrale su cui tornerà più volte e che si ritrova lungo tutto il suo percorso filosofico. Nel suo famoso discorso intitolato La questione della tecnica, tenutosi nel 1953, Heidegger descrive l’essenza della tecnica moderna partendo dalla parola greca τέχνη (Tèchne) con cui i Greci indicavano sia il lavoro artigianale sia l’arte.
Per Heidegger la questione della tecnica è un punto centrale su cui tornerà più volte e che si ritrova lungo tutto il suo percorso filosofico. Nel suo famoso discorso intitolato La questione della tecnica, tenutosi nel 1953, Heidegger descrive l’essenza della tecnica moderna partendo dalla parola greca τέχνη (Tèchne) con cui i Greci indicavano sia il lavoro artigianale sia l’arte.
Anzitutto, τέχνη non è solo il nome del
fare artigianale e della capacità relativa, ma anche dell’arte superiore e
delle belle arti. La τέχνη appartiene alla pro-duzione, alla ποίησις; è
qualcosa di poietico. Il secondo punto da considerare circa la parola τέχνη è
ancora più importante. Dalle origini fino all’epoca di Platone la parola τέχνη
si accompagna alla parola έπιστήμη. Entrambe sono termini che indicano il
conoscere nel senso più ampio. Significano il «saperne di qualcosa»,
l’«intendersene». Il conoscere dà apertura. In quanto aprente, esso è un
disvelamento. Aristotele, in una trattazione particolare (Eth. Nic. VI, 3 e 4) distingue la έπιστήμη
e la τέχνη, in base al che cosa e al modo del loro disvelare. La τέχνη è un
modo dello άληθεύειν. Essa disvela ciò che non si pro-duce da se stesso e che
ancora non sta davanti a noi, e che perciò può apparire e ri-uscire ora in un
modo ora in un altro. Chi costruisce una casa o una nave, o modella un calice
sacrificale, disvela la cosa da pro-durre rispetto ai quattro modi del
far-avvenire. Questo disvelare riunisce dapprima l’aspetto e la materia della
nave e della casa nella visione compiuta della cosa finita e determina su
questa base le modalità della fabbricazione. L’elemento decisivo della τέχνη
non sta perciò nel fare e nel maneggiare, nella messa in opera di mezzi, ma nel
disvelamento menzionato. In quanto tale, non però intesa come fabbricazione, la
τέχνη è un pro-durre.
La τέχνη non indica il mero fare artigianale e manuale, ma è piuttosto un “sapere”, una conoscenza intesa come il “portare alla luce” qualcosa, il disvelare un oggetto e quindi, in questo modo, conoscerlo. Il disvelamento della τέχνη è una pro-duzione, diversa dalla fabbricazione moderna. La produzione, infatti, si fonda sull’ἀλήθεια (Aletheia), ovvero su quello che Heidegger chiama il “disascondimento dell’essente”. La produzione è un “far-avvenire” e non si riferisce soltanto agli enti artificiali, creati dall’uomo, ma anche a quelli naturali. Ogni ente naturale, infatti, è una produzione che ha la causa del proprio essere dentro di sé, mentre ogni ente artificiale è causato da qualcosa di esterno ad esso. Il fattore che determina ogni produzione è la causalità. Ovvero ogni cosa viene ad esistere per mezzo di quattro cause:
1. La
causa materialis, ovvero la materia di cui essa è fatta.
2. La
causa formalis, la forma che la materia assume.
3. La
causa finalis, lo scopo a cui la cosa deve servire e che ne determina la
materia e la forma.
4. La
causa efficiens, che produce l’effetto. Se una cosa è artificiale, essa è
l’uomo, mentre gli enti naturali portano al loro interno la propria causa
efficiens.
Tuttavia
la causalità intesa dai greci ha un significato diverso da quello che si
intende con “causa” dai romani in poi. Solitamente si tende a considerare solo
l’ultima delle quattro cause, la causa efficiens, come l’unica e più importante
nella produzione di un oggetto, identificandola con l’operare dell’uomo. Ma la
causalità dei greci non ha niente a che fare con l’operare o l’effettuare, essa
si configura come un “essere responsabile”. Prendendo come esempio un calice
d’argento, Heidegger spiega che le quattro cause che agiscono sul calice sono
tutte responsabili del suo essere. Il calice deve la sua materia, la sua forma
e il suo scopo alle prime tre cause ed infine viene l’orafo che è
corresponsabile della produzione del calice, ma non la sua unica causa. Le
quattro cause agiscono insieme e in connessione fra loro e sono responsabili insieme
della formazione dell’oggetto. L’”essere responsabili” dei greci ha un
significato diverso da come lo si intende ora. Non è una responsabilità morale,
ma è il far apparire una cosa, è il portare nel disvelamento un ente che prima
era nascosto. Scrive Heidegger:
L’esser-dinnanzi e l’esser-disponibile
caratterizzano la presenza di una cosa-presente. I quattro modi
dell’esser-responsabile portano qualcosa all’apparire, fanno sì che questo
qualcosa si avanzi nell’apparenza. Essi lo liberano, per questo suo avanzare,
cioè per il suo compiuto avvento. L’essere responsabile ha il carattere
fondamentale di questo lasciar-avanzare nell’avvento. Nel senso di questo
lasciar-avanzare l’esser-responsabile è il far avvenire.
Il far
avvenire è il portare qualcosa nella presenza. Qualsiasi cosa, dunque, non viene
creata dal nulla per mezzo dell’uomo, ma viene liberata dalla materia di cui è
fatta, attraverso la responsabilità delle quattro cause. La produzione quindi
ha un significato molto più ampio rispetto al normale operare, essa appartiene
appunto al disvelamento dell’essente. L’analisi del
concetto di disvelamento dell’essente, però, ci porterebbe troppo lontano,
continuiamo quindi a percorrere l’analisi del filosofo riguardo la tecnica.
Una volta determinata l’essenza della tecnica antica Heidegger approfondisce le differenze fondamentali che distinguono la tecnica intesa dai Greci come produzione dalla contemporanea tecnica moderna. Entrambe, dice, sono dei modi per portare ad esistere una cosa, tuttavia la tecnica moderna non è più un disvelamento come produzione, ma come «provocazione». La provocazione impone alla natura di svelarsi come riserva di energia che può essere estratta e accumulata. La terra, ad esempio, non è più coltivata dal contadino che affida i semi alla forza della natura, ma adesso è provocata dalla tecnica e disvelata come riserva di minerali. La stessa cosa vale per un fiume su cui si impianta una centrale elettrica, il fiume ora è impiegato nel far girare le turbine che permettono di produrre energia elettrica da immagazzinare e usare per altri scopi. Il fiume è lo stesso di quando non c’era la centrale elettrica, ma ora è svelato come produttore di energia. La tecnica moderna è, quindi, una modalità del disvelamento che ha il carattere della provocazione, nel senso che svela le energie nascoste della natura, le trasforma e le immagazzina. Azioni, queste, che non potevano essere fatte dalla tecnica come produzione. In questo processo ciò che è impiegato nella provocazione è definito da Heidegger come «fondo». Con “fondo” intende tutto ciò che, sotto il disvelamento della provocazione, non è più considerato come un oggetto, ma come una riserva pronta per essere impiegata. Il fondo non è solo un materiale per fornire energia. Anche un aereo o un’automobile sono, ad esempio, un fondo, in quanto diventano impiegati per spostarsi. Sotto la tecnica moderna ogni cosa esiste a partire dal suo essere fondo, ovvero dal suo essere impiegata per qualcos’altro. Nella provocazione l’uomo è una parte attiva ma ugualmente provocata, esso è impiegato affinché controlli e assicuri l’impiegabilità di tutte le cose. L’uomo è impiegato in modo più originario e partecipa, anche se inconsapevolmente, alla provocazione.
E qui torniamo a Palahniuk, il quale aveva domandato “si può dimenticare chi sei?”
Dimenticarsi
chi si è, però, è proprio l’effetto che compie la tecnica moderna come “provocazione”
sull’uomo. Come osserva ancora Heidegger nel suo discorso, riferendosi ora ad
un discorso precedente del fisico tedesco Werner Heisenberg, suo contemporaneo:
Così si viene diffondendo l’apparenza che
tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è prodotto dell’uomo. Questa
apparenza fa maturare un’ulteriore ingannevole illusione. E l’illusione per la
quale sembra che l’uomo, dovunque, non incontri più altri che se stesso. Con
piena ragione Heisenberg ha fatto notare che all’uomo di oggi il reale non può
che presentarsi in questo modo. In realtà, tuttavia, proprio se
stesso l’uomo di oggi non incontra più in alcun luogo; non incontra più, cioè,
la propria essenza. L’uomo si conforma in
modo così decisivo alla pro-vocazione che non la percepisce come un appello,
non si accorge di essere lui stesso l’appellato e quindi si lascia sfuggire
tutti i modi secondi i quali egli ek-siste nell’ambito di un appellare, per cui
non può mai incontrare soltanto
se stesso.
Heisenberg,
infatti, a conclusione delle sue osservazioni riguardo la modalità di ricerca
della scienza moderna, sostiene che l’uomo non possa più relazionarsi alla
natura in modo puro. Gli scienziati, nella sua visione, non studiano più la
realtà in sé ma soltanto la conoscenza che essi hanno della natura. L’uomo non
è più contrapposto alla natura come nelle epoche passate. Nella modernità egli
ha talmente trasformato il mondo che, ovunque guardi, vede soltanto prodotti
dell’uomo, non trova più nel mondo nient’altro di diverso da se stesso.
L’immagine della natura che l’uomo ha creato con la scienza moderna non è più
l’immagine esatta della natura, ma l’immagine dei rapporti che ha con essa. Per
descrivere questa situazione Heisenberg usa l’immagine di una nave costruita in
acciaio e ferro, sopra cui l’uomo non può più orientarsi, in quanto la bussola che
egli usa indica soltanto la nave stessa.
Con l’estensione apparentemente illimitata
della sua potenza materiale, l’umanità finisce per trovarsi nella situazione di
un capitano la cui nave è così saldamente costruita di acciaio e di ferro che
l’ago magnetico della sua bussola indica solo la massa ferrosa dello scafo e
non segna più il nord. Con una nave così non è più possibile raggiungere meta
alcuna; essa navigherà solo in cerchio e sarà abbandonata al vento e alle
correnti.
L’uomo
è così abbandono a sé e prende se stesso come suo unico punto di riferimento.
Per riuscire a tornare a navigare liberamente, dice Heisenberg, il primo passo
è divenire cosciente del fatto che la bussola stia indicando solo la nave, in
questo modo il pericolo sarà per metà superato. Successivamente l’uomo dovrà
trovare nuovi mezzi per la navigazione, costruendo delle bussole migliori,
oppure ritornando a orientarsi con le stelle.
Quasi
per assurdo è proprio questo non vedere altro che prodotti umani che fa
dimenticare all’uomo chi egli sia. Dimenticarsi chi si è vuol dire non
ricordarsi della propria essenza e non porsi più la domanda riguardo il proprio
essere uomini.
Ripartiamo
ancora da Palahniuk.
Nel
suo romanzo più famoso, Fight Club, si trovano altri spunti e riflessioni che si avvicinano a
quelle di un altro filosofo tedesco vicino al pensiero di Heidegger, ovvero
Ernst Jünger.
In
Figt Club Palahniuk descrive la
condizione dell’uomo medio suo contemporaneo. La sua generazione, dice, è
cresciuta in un periodo intermedio della storia, in cui non c’è una grande
guerra, non c’è una grave depressione, i figli di questa generazione sono stati
cresciuti dalla televisione, sognando un giorno di diventare milionari o
rockstar. Ma il mito del successo sta iniziando a crollare.
Il
protagonista del libro è un tipico americano medio, ha una vita tranquilla, un
lavoro sicuro e una casa perfetta. Durante uno dei suoi viaggi di lavoro
conosce Tyler Durden, il suo opposto, l’uomo libero che ha sempre sognato di
essere. Insieme a lui fonda i Fight Club, ovvero incontri di lotta libera clandestini,
organizzati in luoghi segreti, in cui le persone possono sfogarsi attraverso
una violenza senza alcuna regola.
Ernst
Jünger, nel suo scritto intitolato Oltre
la linea analizza il problema del nichilismo e della possibilità di un suo
superamento. Jünger chiama l’uomo della sua epoca il lavoratore, in quanto per il filosofo l’uomo moderno guarda la
realtà esclusivamente attraverso la lente della tecnica e più in particolare
guarda ogni cosa sotto l’aspetto del lavoro. Per l’uomo ogni cosa esiste se è
di fatto lavorabile o utilizzabile per qualcos’altro. Ciò che non rientra nell’ottica
del lavoro e dell’utilizzo tecnico cessa di esistere. Ogni persona diventa
quindi un piccolo ingranaggio della grande industria del lavoro. Vengono a
perdere di senso anche tutte le associazioni industriali o sindacali, che Jünger
descrive in questo modo:
Predisposte come sono al puro
funzionamento, il loro ideale consiste nel non far niente di più che «premere
il pulsante» o «girare l’interruttore».
Palahniuk
descrive in modo molto simile la situazione dell’uomo moderno. Lo chiama
ironicamente «scimmia spaziale», riferendosi a quegli animali spediti nello
spazio a bordo di una navicella, per un viaggio senza ritorno.
C’è un silenzio così grande quassù, che la
sensazione che hai è di essere una di quelle scimmie spaziali. Fai quel po’ di
lavoro per cui sei addestrato. Tiri una leva. Schiacci un bottone. Non ci
capisci niente e a un certo punto muori e basta.
Se
la vita del lavoratore si riduce a questo, il protagonista del libro cerca di
uscirne, attraverso un percorso di autodistruzione e violenza. Palahniuk fa
dire al personaggio:
All’epoca la mia vita mi sembrava troppo
completa e forse abbiamo bisogno di spaccare tutto per tirare fuori qualcosa di
meglio da noi stessi.
La
sua forza distruttrice si scaglia contro tutto ciò che per le persone
contemporanee è sacro, inviolabile. Vuole cancellare dal mondo tutta la storia
e tutto ciò che è considerato bello.
Non c’è niente di statico. Persino la Gioconda se ne va in pezzi. Forse
l’automiglioramento non è la risposta. Forse la risposta è l’autodistruzione.
In
questa sua visione nichilistica dell’esistenza niente ormai ha più senso, i
combattimenti nei fight club ne sono la testimonianza. La loro violenza è
totalmente inutile e gratuita, finito il combattimento non si è risolto
niente.
La
via per uscire dal nichilismo, per Jünger, è attraversarlo interamente. Per il
protagonista del libro di Palahniuk bisogna «toccare il fondo» per poter
risalire.
Tyler dice che io non sono nemmeno vicino
ad aver toccato il fondo. E se non precipito completamente non posso essere
salvato. (…) Io dovrei separarmi dall’automiglioramento e dovrei lanciarmi a
capofitto verso il disastro. (…) Solo dopo il disastro si può risorgere. (…) E’
solo dopo che hai perso tutto che sei libero di fare qualunque cosa.
I
fight club iniziano ad aumentare e nascere in tutto America, vi partecipano
molte persone, di qualsiasi estrazione e professione. Tyler Durden, l’alter ego
del protagonista, decide di andare avanti e creare qualcosa di più forte,
qualcosa che scuota gli animi delle persone, che risvegli le coscienze. Il suo
scopo è far capire alle persone che ognuna ha dentro di sé tanta forza per
poter cambiare il mondo. Tyler crea il «Progetto Caos», riunisce quindi un suo
piccolo esercito organizzato per portare il disordine nelle città attraverso
azioni violente senza senso o logica alcuna.
Il
caos, il disordine, sembrerebbe il segno distintivo del nichilismo ma, come
sostiene Jünger, è invece l’opposto. Il nichilismo, infatti, trova terreno fertile
anche e soprattutto all’interno di sistemi ordinati.
Il caos diventa visibile solo nel momento
in cui il nichilismo comincia a venir meno in una delle sue combinazioni. È
istruttivo vedere che perfino nelle catastrofi le componenti d’ordine sono
largamente presenti, addirittura sino alla fine o quasi. È chiaro perciò che
l’ordine non solo è ben accetto al nichilismo, ma fa parte del suo stile. Il caos
è quindi tutt’al più una conseguenza del nichilismo, e neppure la peggiore. Ciò
che è decisivo è quanta parte di vera anarchia si nasconda nel caos, quanta
fecondità ancora disordinata. Essa va cercata nell’individuo e nella società,
non nei resti di uno Stato in rovina.
Il
Progetto Caos inventato da Tyler inizialmente vuole andare contro al sistema
d’ordine nichilistico della società. Vuole anzi distruggere completamente la
società moderna per poter rifondare un mondo nuovo. Tuttavia nel tentativo di
far questo esso ricrea soltanto un altro ordine nichilistico uguale al
precedente. Il Progetto Caos si trasforma in un sistema militare, in cui i
componenti singoli perdono la propria individualità, credendo cecamente al
proprio fondatore e eseguendo le azioni che lui comanda. Ritornano quindi a
tirare leve e schiacciare bottoni, senza avere coscienza del progetto generale
che stanno attuando.
Un’altra
tesi di Palahniuk è che «Se sei maschio e
sei cristiano e vivi in America, tuo padre è il tuo modello di Dio. E se non
hai mai conosciuto tuo padre, se tuo padre prende il largo e muore o non è mai
a casa, che idea ti fai di Dio? (…) La fine che fai è passare la vita a cercare
un padre e Dio».
L’autodistruzione
è vista come una punizione per ottenere la salvezza, la violenza non è altro
che un modo per sentirsi vivi e far sapere al mondo della propria esistenza, è
un modo per attirare l’attenzione di Dio. Alla fine del romanzo il protagonista
riuscirà a incontrare per davvero Dio e a parlargli. Non giunge, però, a una
vera e propria conclusione, ma pensa che «noi
non siamo speciali. Non siamo nemmeno merda o immondizia. Noi siamo. Noi siamo
soltanto e quello che succede succede soltanto». Nel nichilismo non possono
esistere valori come il bene e il male, in quanto non esiste nessun ordine al
quale rapportarli. «Quando il nichilismo
diventa una condizione normale, all’individuo non rimane che la scelta tra due
modi diversi di ingiustizia» dice Jünger. Il protagonista di Fight club
rimane in un sistema nichilistico senza valori a cui fare riferimento, nella
ricerca continua di un Dio.
Alla
ricerca, cioè, di un’entità statica a cui aggrapparsi, di quell'essenza perduta
dell’uomo che sente esistere, forse non ancora consciamente.
Chuck Palahniuk |
Martin Heidegger |
Werner Heisenberg |
Ernst Jünger |
Testi citati:
Palahniuk Chuck, La scimmia pensa, la scimmia fa, Mondadori, Milano 2006.
Palahniuk Chuck, Fight Club, Mondadori, Milano 2003.
Heidegger Martin, La questione della tecnica, in Le arti nell’età della tecnica, a cura di M. Guerri, Mimesis, Milano 2001
Heisenberg Werner, L’immagine della natura nella fisica contemporanea, in Le arti nell’età della tecnica, a cura di M. Guerri, Mimesis, Milano 2001.
Ernst Junger, Oltre la linea, in Oltre la linea, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1989
LCPA
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